Partiamo innanzitutto dal mese dei festeggiamenti: febbraio. Il termine “febbraio” deriva dal latino “februarius”, a sua volta derivante dall’aggettivo “februus”, ovvero “purificante”. Non a caso, in questo periodo, si celebravano feste in onore del sole “crescente”, l’inizio cioè del nuovo anno e, di conseguenza, della necessità di liberarsi delle “sozzure” dell’anno appena trascorso. Un sentimento comune tanto ai romani, che festeggiavano i Lupercalia (in onore del dio Luperco), quanto ai popoli germanici che, nello stesso periodo, celebravano i Spurcalia attraverso il sacrificio dei porci.
Probabilmente è proprio da questa usanza che i giorni del carnevale sono rimasti i “giorni grassi”, caratterizzati da pasti proprio a base di maiale. Tuttavia, un’altra motivazione del perché questi giorni vengano definiti “grassi”, va ricercata nella tradizione cristiana. Il periodo di Quaresima, infatti, comandava quaranta giorni di digiuno in vista della Pasqua (tanto che “carnevale” significa “carne-levare”, cioè liberarsi della carne) ed è dunque presumibile che la gente, per far fronte a questo momento di sacrificio, cercasse di saziarsi il più possibile.
Ma sicuramente il carnevale è conosciuto, e atteso, soprattutto per scherzi e travestimenti.
Febbraio era infatti anche il periodo delle ciabre medievali, feste chiassose durante le quali i giovani si camuffavano per farsi beffa di qualcuno.
Le maschere però possiedono anche un significato più profondo. In esse si mantiene vivo il “genius loci”, ovvero lo spirito della comunità che, in tempi passati, poteva in questo periodo far sentire la propria voce rispetto ai signori dominanti. Non a caso, tra le tante maschere esistenti, vi sono quelle che rappresentano i mestieri popolari, come quelli del contadino e del montanaro (le più famose Gianduja di Callianetto o Gioppino nel bergamasco).