Le tre Parche, di Asmara

 

Siamo le Parche.
No, non siamo le Parche. Ma tutti ci chiamano così.
Questa fotografia ci ritrae molti anni fa. Eravamo giovani.
Le Parche erano vecchie e cieche. Anche solo da questo si dovrebbe cogliere la differenza, no?
Eppure allora, già allora, noi eravamo le Parche. E siamo rimaste così. Noi tre, da sole.
E adesso siamo vecchie e cieche. E sorde. Ma non abbiamo più molto da dire e da dirci.
Siamo diventate davvero le Parche, abbiamo assunto il loro aspetto. Ma non siamo loro. Non sappiamo recidere il filo di nessuno, nemmeno il nostro, che per quanto logoro e sfibrato, sembra non avere ancora intenzione di spezzarsi.
Viviamo nella solitudine l’una delle altre. Viviamo nell’attesa della morte l’una delle altre. A quel punto, alla fine, quando una di noi non ci sarà più, cambierà davvero qualcosa nelle nostre vite. Attendiamo la morte per sperimentare un cambiamento nella vita.
La mia gemella, Marta, siede alla mia sinistra. È sempre stato così. A scuola, a tavola, nelle poche occasioni in cui ci è successo di stare tra la gente. Marta a sinistra. La cerco tuttora lì, da quella parte. Forse era da quel lato anche nel grembo che abbiamo condiviso. Lei è l’allegria che non ho mai avuto. È forte. Il naso più grande, la bocca più carnosa. È ancora così. O io la vedo così. O penso di vederla così. Anche oggi, senza che ci sia un vero motivo (se non il rispecchiarci l’una nell’altra, non ancora stanche di confrontarci, eppure esauste di non sapere fare altro), ci vestiamo allo stesso modo, con gli stessi gioielli. Siamo due bambine che giocano. Non possiamo smettere.
Morirà prima Ada. Ada ci sorveglia anche qui. È più anziana di due anni, ed è lei che ci guida. O pensa di guidarci. Tuttora. Appena un’ora fa ci chiamava dalla sala per la merenda. Tutte e tre fatichiamo ormai a mangiare, eppure. Beviamo giusto un sorso di quel caffè lungo che ci prepara la cameriera. Non dormiamo più in ogni caso, o pochissimo. Potremmo bere tutto il caffè del mondo e non ci farebbe stare sveglie più di quanto lo faccia l’età. E i ricordi. E la stupidità di questi nostri ricordi che non vanno oltre le pareti della casa, il muro di cinta del parco, le sempre più rade visite ai e dei parenti. Sono tutti morti. Lo siamo anche noi. Non abbiamo eredi. Abbiamo così tanti possedimenti, soldi e titoli… E nessuno a cui lasciarli. A dire il vero non ci interessa. Non ci interessa più. Non è roba nostra. L’abbiamo solo ereditata e ne abbiamo usata soltanto una minima parte.
Abbiamo ereditato troppo presto, quando abbiamo perso tutto. Siamo orfane da sempre. Io e Marta abbiamo ucciso nostra madre al parto. Nostro padre ha agito da sé, senza aspettare che crescessimo.
Il parroco ci viene a trovare una volta l’anno. Il minimo indispensabile per capire se le nostre ultime volontà sono mutate. Gli offriamo sempre la stessa accoglienza e questo lo rassicura, per un po’. Marta dice che da qualche anno è più sollecito, più inquieto quando si siede sul sofà in attesa del bicchierino di liquore. Secondo lei il prevosto teme di non sopravviverci, di morire povero o, peggio, di morire senza essere riuscito ad arricchire la parrocchia. Io sorrido. Ada la rimprovera. “Non essere impertinente”. La mia gemella è molto pertinente, in realtà.
Quotidianamente mi occupo di riannodare il filo del discorso di ieri, di ieri l’altro, di giorni e mesi e anni. Come sempre, richiamo qualcuno, sussurro un nome. “I morti sono morti”, mi chiude la bocca Ada. “Ma sono i nostri morti”, apre la sua Marta. Così li evochiamo sorseggiando il caffè. Dico sempre che le nostre non sono merende. Sono sedute spiritiche. Marta sorride. Ada mi rimprovera. “Maria, non essere impertinente”. Anche lei sa che non ho mai detto nulla di più pertinente. Filiamo, come le Parche, la memoria di gente vista una volta soltanto. E di gente mai vista, solo sentita nominare. E di gente inventata. Che abbiamo inventato noi e che a lungo andare ha preso posto accanto all’altra. Non abbiamo mai avuto, né io né Ada, alcun pretendente. Ma abbiamo creato situazioni così verosimili che né io né lei osiamo sollevare dubbi o questioni in merito. Siamo state entrambe corteggiate da fantasmi. Ma la verità è che non abbiamo mai avuto uomini. Nessun uomo ci ha mai avute. Nessun uomo ha mai dato segno di volerci avere. Per fortuna non ci ricordiamo più che cosa sia il desiderio, né il rammarico, non riusciamo più a trovare il rimpianto per quanto lo abbiamo nascosto bene, non ci stupiamo più di quanto sia sbiadito il nostro vivere di allora.
Siamo più nitide in questa remota fotografia di quanto lo siamo ora. Le nostre persone hanno perso di consistenza. I nostri tratti non sono più così incisi. Guardo le mie sorelle e vedo i loro bordi smarrirsi nella luce che filtra dalle tende e nel pulviscolo sospeso negli interminabili meriggi. Raggi obliqui e silenziosi, come noi. La pendola del corridoio si è fermata chissà quando, ma anche questo non ci interessa più. C’è chi tiene conto del tempo per noi. Anch’io non ho più confini così netti. Ci stiamo dissolvendo. Depositiamo progressivamente la nostra figura che il tempo sfarina, ormai sabbia fine di clessidre, tra le pagine dei libri che sfoglio senza più leggerli, nei solchi dei dischi che Ada si ostina a far girare per lo più inavvertiti dai timpani di tutte e tre, nelle pieghe del ventaglio liso che Marta ancora apre e chiude per ore, senza usarlo mai per ciò che serve.
Questa fotografia mi riporta a un’epoca di possibilità, in cui i nostri esseri erano ancora solidi, non abrasi dalla nostra stessa polvere fluttuante nell’aria.
Possibilità. Nessun uomo per me a Ada.  Per Marta sì, per così dire. Enrico. L’unico. È morto in mare. “Scomparso”, precisa sempre Marta, come se dopo decenni facesse ancora qualche differenza. Ci hanno dato la notizia del naufragio una sera di neve e pioggia come questa.
È da allora che ci chiamano così. Le Parche. Eravamo in lutto. Siamo nate in lutto. Siamo rimaste in lutto. Marta ha trovato poetico che Enrico fosse scomparso nell’oceano. Ada ed io abbiamo trovato poetico che Marta lo avesse trovato poetico. Non c’era amore tra lei ed Enrico. Solo un bisbiglio, un cenno, un saluto prima del viaggio. E una promessa di incontro. Nient’altro. Che poi era tutto. Per tutt’e tre. Più per noi che per lei. Così abbiamo pianto. Per anni abbiamo trovato poetico questo piangere che non consolava di una perdita e nemmeno liberava da un peso. Enrico si era perso senza vincoli e Marta era libera prima come lo è stata dopo. Un altro fantasma. Piangevamo incapaci di farlo perché non avevamo mai avuto modo di imparare. Siamo nate in lutto. Siamo rimaste in lutto. Ed è così poetico quando piangiamo ancora. Siamo bambine che hanno letto troppo, suonato troppi dischi, torturato troppi ventagli.
Hanno detto che portavamo sfortuna. Che la nostra fortuna portava sfortuna. Pian piano si sono allontanati anche coloro che non ci erano mai stati vicini. La madre dell’attuale cameriera, quando era a servizio da noi (superfluo dirlo, è morta anche lei da tanti anni), un giorno ci ha detto del nome che ci davano in paese e nei paesi vicini. Le Parche. Ho pensato molto a questo nome. Ho consultato la biblioteca che svariate generazioni hanno accumulato nel salone. Anche il salone è diventato qualcos’altro, cioè la biblioteca. E noi? Ci hanno trasformate. Da tre sorelle che tutti avrebbero voluto in tre donne che era meglio evitare. Arpie, megere, streghe. Parche. C’è tanta poesia anche in questo, e perciò anche tanto pianto.
Il fotografo non era di queste parti. Non ricordo nulla di lui. Però lo evoco, ogni tanto. Non so se fosse alto, moro, affabile. Non ne ho la minima idea. Ma ho un compito nella nostra routine e lo svolgo al meglio delle mie forze. Quindi il fotografo, un francese (davvero era un francese?), era slanciato, coi capelli corvini e i modi di un galantuomo. Ada e Marta annuiscono. A volte aggiungono un dettaglio. Il cappello. Il fazzoletto nel taschino. Come fossero state particolarmente curate le sue mani.
Quello che so è che ci incontrò fuori. Non entrò mai in casa. Risalì il vialetto tra i platani. I cani gli si fecero incontro senza essere minacciosi e lui ci convinse a metterci in posa. In un minuto aveva allestito il fondale con il telo chiaro che si vede e che era un po’ corto. Sotto si nota il muro che unisce l’ala costruita dal nonno al vetusto torrione. Ada lo aveva osservato per tutto il tempo esattamente come lo scruta nella fotografia. Naturalmente lo aveva rimproverato per qualcosa, ma non rammento esattamente perché. Marta stava ancora pensando a Enrico. Io pensavo a lei che ancora pensava a Enrico. Del fotografo non ci importava nulla. Lo abbiamo lasciato fare. Il cavalletto, la lastra, il drappo sul capo. Qualche parola per farci stare ferme. Lo scatto. Aveva lavorato poco e aveva chiesto poco. Il giardiniere gli aveva detto che, nel caso non ci avesse recapitato la fotografia, lo avrebbe trovato e avrebbe ripreso il nostro denaro con gli interessi. La mattina seguente un ragazzino era arrivato dal paese con una busta. Gli avevano detto di non entrare e non era entrato. Cosa deve aver raccontato poi ai suoi e ai suoi amici… Eravamo un bersaglio fin troppo facile.
Fu il giardiniere a portarci la fotografia. O la cuoca? Non ricordo. L’abbiamo guardata a lungo. Un prodotto semplice. Due pezzi di carta incollati. Su quello più sottile lo spessore persistente di tre destini appiattiti in ciò che la luce ha restituito di loro. Il fotografo ci aveva promesso che non si sarebbe alterata. Ha avuto ragione. L’ho tenuta sempre nel mio cassetto e non ha preso luce. Quelle tre ragazze ci vedono per quelle che siamo oggi e non si capacitano. Loro così dense, noi ormai così labili. Quando, ogni tanto, la tiro fuori per una delle nostre sedute spiritiche, Ada si guarda come quell’altra Ada guarda lei. C’è un rimprovero reciproco che non ha parole. Marta sfilaccia un po’ il suo ventaglio. “Chissà che fine avrà fatto quel fotografo”. Lo dico tutte le volte. Abbocchiamo sempre ai nostri stessi ami. Ada si alza a fatica dalla poltroncina e comincia a rovistare tra i suoi dischi. “Sarà morto”, dice. Io so che Marta sta per dire che è scomparso. Che sta per confondersi, che sta per sbagliare fantasma. Ma so che si trattiene all’ultimo, perché solo Enrico è scomparso, gli altri sono morti. Anch’io sto per dirlo, ogni volta è così, ma mi trattengo perché ne avrebbe a male e io di più. “Era un francese”. Questa è Marta. E io sento la mia voce che dice “Sì, un francese. Un ragazzone. Capelli scuri e un bel modo”.
Così filiamo ancora un po’, finché fa buio.
Non abbiamo cesoie. Siamo Parche inutili. Non siamo Parche.
Quelle vere taglieranno i nostri fili. E di noi non resterà che questa fotografia. L’unica, che io sappia, che ci ritrae tutte e tre. La troveranno nel mio cassetto e, forse, ci dedicheranno uno sguardo fugace. Ironico e sprezzante.
Eccole”, diranno, “le tre sorelle… E dire che non erano poi brutte, da giovani…”.
Sì, però, per forza nessuno le voleva. Sempre a lutto. Sempre con questo nero addosso…”.
Nessuna di noi ha mai indossato un abito nero. Quel giorno, come anche oggi, i nostri vestiti sono blu. Blu scuro, ma blu.
Anche la fotografia inganna. Anche questa. Si giudica quasi sempre senza sapere.
Tutti ci chiamano così.
Ma noi non siamo le Parche.

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