Macaronì, di Asmara

 

Eccoli lì, i macaronì.

Ci prendevano per il culo, i mangiarane (che poi le rane sono buone e le abbiamo sempre mangiate anche noi). Poi, però, il loro culo con la “erre” lo portavano fin dentro il ristorante dello zio senza tante storie, lo appoggiavano sulle sedie e non lo sollevavano più per ore. E si strozzavano di maccheroni.

Guarda quanta gente lavorava per lo zio. Ci guardavano dall’alto in basso, certo, ma all’epoca non c’era nessun posto che girava come il ristorante dello zio. Da Eugenio. Non gli era neanche passato per l’anticamera del cervello di chiamarlo alla francese. Chez qui, chez la…, ma da quando?… Da Eugenio, come se non si fosse a Lione, ma a Milano o a Torino o chissà dove, ma in Italia.

I franseis, come li definiva lo zio sollevando un po’ il mento – ti ricordi come faceva, no? –  come se volesse includerli tutti in un colpo solo, i franseis ci hanno messo un bel po’ ad accorgersi che Eugenio eri tu e non lui. Davano per scontato che “Da Eugenio” fosse per indicare il padrone, non suo figlio. Invece il barba aveva intitolato il locale a te. Tu rispondevi al suo posto e lui faceva finta di non sentire. O di non capire. Ce l’hai presente quel tipo di Gap che si fermava sempre da noi prima di andare alla fiera? Quante volte, dopo il quarto o il quinto bicchiere, fissava lo zio e diceva “Eujeniò”? e lui lo guardava come stesse parlando in cinese. Serio, attento, cordiale, ma zitto… Quello di Gap quasi implorava, “Eujeniò”…?, e lo zio allargava le braccia, arrendendosi, tutto dispiaciuto di non essere riuscito a intenderlo. Tuo padre era un dritto e con lui si rideva fino a piangere. Specialmente quando imitava quello di Gap.

La foto l’ho presa io. Era il 1911. Avevi dodici anni, giusto…?

Ci sono degli avventori, quelli abituali, gli amici. Tutti macaronì. Tranne il Pierre. Che alla terza birra avrebbe posato anche in mezzo a un battaglione di crucchi e avrebbe spergiurato di essere tedesco. Il Pierre… La birra lo rendeva internazionale. Sapeva tutte le lingue. L’Attilio e il Severo, tu in piedi in mezzo a loro.

Non so chi ti ha fatto la croce sopra la testa. Idem per lo zio.

Si sedeva solo per fumare le poche sigarette che fumava. Aveva sempre qualcosa da fare, qualche problema da risolvere. Non stava mai fermo. Sempre in piedi. Sempre in giro per le sale, le cucine, le cantine, la stalla, il magazzino. Cantava, bestemmiava, insultava, scherzava, consolava, consigliava, parlava… Tutto in uno. Tutto nello stesso discorso. Sempre che non ci fossero i franseis da prendere in mezzo.

Loro e il loro St Raphaël delle balle. A Lione tracannavano solo quello. Non capivano niente, ma che cosa puoi farci. Quel filosofo aveva detto che in Africa hanno le scimmie e in Europa abbiamo i francesi, no? La quinquina… Non era cattivo, d’accordo. E se andavi dal Clément a Valence ad assaggiarlo lì, appena fatto, bello fresco, beh, si faceva bere. Però vuoi mettere il barolo chinato? E quella volta che il rappresentante aveva insistito un po’ troppo sull’ordine, lo zio lo aveva interrotto dicendogli che tutto il suo St Raphaël non valeva uno sputo di vermouth Carpano. L’altro non aveva colto le parole, ma il tono sì. Lo zio serviva il vino alla quinquina, ma solo perché non poteva fare diversamente.

Potremmo star qui a contarcela tutto il giorno. Magari una volta ci vediamo e con la foto davanti ci divertiamo un po’. Così, tanto per fare… Come se il Giacomo e il Luigi non fossero morti tutti e due cinque anni dopo. Potevano imboscarsi e starsene in Francia. E invece no. Hanno fatto di tutto per tornare in Italia e farsi ammazzare in Trentino. Te lo ricordi il Luigi? Che cosa diceva…? “Partono i franseis, vuoi che noi non si parte? Che figura ci facciamo?”. La zia Rita e la Ortensia gli dicevano di farsi furbo, ma lui niente. E il Jaco dietro. Kaputt. Il Genesio, che non toglieva il grembiule nemmeno a messa (che tanto non ci andava mai, anzi no, a Natale andava, anche senza sapere neanche il Padre Nostro, perché i socialisti non sono mica dei senza Dio…), una volta ha detto al Jaco che il Bruno abbaiava e camminava a quattro zampe, ma era più intelligente di lui. Si erano presi per il collo e li hanno divisi il Silvino e il Berto. Tu non c’eri, era quel periodo che ti avevano mandato al mare a prendere il sole perché eri troppo magro. Nella zuffa al Silvino si era strappata la camicia immacolata che portava sempre e il Berto aveva dovuto fargli vedere il bastone dello zio, altrimenti li accoppava tutti e due. Anche se erano i suoi figli. Tanto poi sono morti lo stesso e lui ha smesso di parlare. Io me n’ero già andato e sei stato tu a scrivermi che si era lasciato morire. Lo stesso anno che la spagnola si è portata via la piccola Carlotta. E che ha lasciato sordo il Giannino.

Quel giorno, quello della foto, – ti ricordi? – era capitato qualcosa in Libia. Era l’inizio di ottobre. Avevamo preso Tripoli e i franseis ci guardavano un po’ meno con schifo, con una specie di rispetto. Anche se ‘sta storia della Libia era una porcata, lo sapevano tutti. Però quel giorno, eravamo contenti. L’idea della foto è stata tua. Hai detto: «Renzo, prendi una foto ai macaronì». Il Pierre aveva ordinato un’altra birra e si era già sistemato. Ha dovuto aspettare un’oretta buona (scolandosi altre tre birrette) e poi vi siete decisi a smettere di lavorare un attimo. Nessuno si era mosso finché lo zio non aveva stabilito che era arrivato il momento di fumarne una. Così è nata la foto. Ma tu queste cose le sai. Le scrivo così non me le dimentico.

Il tempo di una sigaretta. A volte si può essere quasi felici, no? Ma dura poco. Il tempo di una sigaretta. E lo zio faceva quattro tiri profondi ed era finita. Poi spegneva la cicca tra le dita. Per non sprecare il tabacco. Si dava una manata sulle cosce e si alzava. Eri ancora lì a finire la parola e lui era già dentro che urlava il nome di tutti. Nel giro di un secondo lì non c’era più nessuno. Neanche il Pierre. Solo io che ritiravo la macchina. Strano che la foto non sia venuta mossa.

 

 

 

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